Sì perchè tra le strade dello shopping e del buon mangiare, appena dietro al Duomo, incastonato tra Via Spadari e Via Armorari le antiche contrade dove si compravano e costruivano armi nel Rinascimento, sorge un luogo straordinario, ricco di tesori e segreti, gelosamente custoditi per secoli e quasi del tutto sconosciuti agli stessi milanesi. Alla fine del XVI secolo queste vie della città che oggi percorriamo senza badarci più di tanto, erano un brulicare di nobili e commercianti, che furono colpiti dalla peggiore piaga dell’epoca ovvero l’epidemia di peste, raccontata sapientemente dal Manzoni e che fece centinaia di migliaia di vittime. Qualcuno dice che le nostre cellule abbiamo una loro memoria ancestrale, ed è forse per quello che ancor oggi in pieno incubo lockdown, siamo così terrorizzati dal virus. Chissà.
Tornando invece alla nostra storia, fu proprio in questo luogo e nel bel mezzo di quel contesto complicato che il Cardinale Federico Borromeo ebbe l’intuizione geniale di costituire un centro straordinario di cultura, dove fosse possibile alimentare lo sviluppo delle arti e delle scienze. Un po’ come aveva fatto alla fine del quattrocento il duca Ludovico il Moro, quando aveva portato a Milano il grande Leonardo Da Vinci. Ed il Genio Fiorentino ebbe il privilegio di lavorare proprio in alcune sale dell’edificio nel quale il Cardinale fondò un secolo più tardi la Biblioteca e a seguire la Pinacoteca Ambrosiana. Federico Borromeo, che poteva contare sull’immagine straordinaria costruita intorno alla sua famiglia dal cugino, il celebre San Carlo, fece di più, inviando decine di delegati nelle città più importanti dell’epoca alla ricerca di tesori strepitosi.
Passarono in rassegna Italia, Olanda, Svizzera, Germania, Spagna e Grecia. Andarono anche fuori Europa, fino in Siria e nei paesi del Medio Oriente alla ricerca dei libri più preziosi e dei manoscritti più rari. Quando iniziò a costruire la biblioteca nel 1603, Il cardinale aveva già selezionato oltre 15.000 manoscritti e più di 30.000 libri stampati, insieme a numerosi disegni e quadri dei più grandi maestri, parte della sua stessa collezione. Li donò tutti all’Ambrosiana nel 1618.
Fu soprannominata ben presto la Biblioteca delle Meraviglie anche perché fu una delle prime al mondo a essere aperta al pubblico. Divenne un centro di studio e di cultura, affiancata da altre importanti istituzioni come il Collegio dei Dottori, l’Accademia di Belle Arti e la già citata Pinacoteca. Nel 1625 fu acquistato per l’Accademia il bozzetto a grandezza originale de “La Scuola di Atene” di Raffaello, disegnato per l’affresco della Stanza della Segnatura in Vaticano.
Nonostante tutto il cardinale pensò subito a lui per affidargli un incarico davvero importante. Qualche tempo prima infatti, un dignitario s’era vantato con lui dell’acquisto di un dipinto raffigurante un piatto di pesche, realizzato da Ambrogio Figino, uno dei pittori più in voga tra i nobili milanesi dell’epoca, e Borromeo grande collezionista ed esperto d’arte, non poteva essere da meno. Si trattò di una sorta di gara tra talento e capacità realizzative. Federico bramava un pezzo di qualità superiore a quello dell’amico. Caravaggio, sfidando se stesso e le rigide regole dell’epoca, realizzò un’opera memorabile. In molti hanno speculato sulla simbologia della natura morta come allegoria e caducità della vita.
Ma sfogliando il libro di appunti, un vero e proprio testamento spirituale del Borromeo, si scoprirà quanto poco gli interessassero simboli e misteri. Nonostante fosse un arcivescovo della controriforma nutriva una passione estetica molto materiale. L’arte era il suo momento di svago, il rifugio dalla rigida etichetta ecclesiastica. Poche dietrologie, solo complicità fra artista e committente legati dai segreti di un cesto di frutta.
Ma le sorprese non mancarono di certo. Per esempio le dimensioni originali, furono penalizzate da una cornice più tarda, che nasconde l’ardita prospettiva del dipinto che si regge sui pesi e contrappesi dei frutti e della canestra. O gli studi illusionistici condotti da Caravaggio per dare l’effetto di un quadro che bucasse la parete. Magnifica, inarrivabile, scriveva l’arcivescovo con un misto di rimpianto e di commozione, a proposito di quella splendida tavola che già allora considerava come la gemma più preziosa della sua collezione.
Un capolavoro che ha segnato non solo l’affermarsi di un nuovo genere nella pittura, la cosiddetta “natura morta”, ma probabilmente la nascita stessa dell’arte moderna così come la intendiamo noi oggi. Morto Caravaggio, morì per lunghi secoli anche la sua opera, in una sorta di damnatio memoriae ante litteram, che fece precipitare l’artista maledetto in un oblio forzato fino ai primi del ‘900. Come dice Sgarbi, Caravaggio può considerarsi il più antico tra i pittori moderni. Dunque non stupisce se questo capolavoro senza tempo fu scelto per decorare una delle banconote più usate nella storia del nostro paese: le mitiche centomila lire. Nei primi anni Ottanta del ‘900 l’inflazione era ancora in piena esplosione, raggiungendo un tasso del 20% a metà del decennio.

Leave A Comment